I quaderni della Lucchesiana
IL PROFUMO DELL’ONESTÀ
Conferenza sul Beato Rosario Angelo Livatino
Biblioteca Lucchesiana, Agrigento 27 novembre 2025
IL MISTERO DEL PROFUMO
Rivolgo un cordiale saluto a Sua Eccellenza il Vescovo; a Sua Eccellenza il Prefetto; al Presidente del Tribunale;al rappresentante del Questore;al Presidente della Provincia; alla dott.ssa Cucinotta, Presidente della Fondazione Agrigento Capitale Italiana della Cultura;e al Signor Sindaco di Canicattì,il dott Luigi D’angelo, il carissimo don Angelo promotore di questo incontro, autorità civili e militari, amici carissimi.
Permettetemi di iniziare con una domanda apparentemente semplice: che cos’è un profumo? È forse solo una sostanza volatile che solletica i nostri sensi? È solo chimica, molecole che fluttuano nell’aria e raggiungono i recettori olfattivi? No. Il profumo è molto di più. Il profumo è memoria incarnata. È presenza invisibile. È traccia che resta quando tutto il resto è svanito.
Marcel Proust ha costruito la sua monumentale Recherche su un profumo: quello della madeleine inzuppata nel tè. Un solo profumo ha riaperto un mondo intero, un’infanzia intera, una vita intera. Perché il profumo ha questo potere misterioso: attraversa il tempo. Anni dopo, decenni dopo, un profumo può riportarci in un istante a un luogo, a una persona, a un momento che credevamo perduto per sempre.
E il profumo ha un’altra caratteristica unica: si diffonde. Non puoi fermarlo. Non puoi rinchiuderlo. Se apri una boccetta di essenza preziosa in una stanza, quella fragranza si espanderà, raggiungerà ogni angolo, si insinuerà nelle pieghe dei tessuti, impregnerà l’aria. E tutti quelli che entreranno in quella stanza, anche ore dopo, sentiranno: “Qui c’è stato qualcosa. Qui c’è stato qualcuno”.
Ecco: l’onestà è un profumo. Non nel senso metaforico debole, non come immagine letteraria ornamentale. Ma nel senso più vero, più profondo, più reale. L’onestà è un profumo perché:
- Si diffonde oltre la persona che la vive
- Resta anche quando quella persona non c’è più
- Attira chi lo sente, anche se non sa spiegare perché
- È riconoscibile immediatamente, istintivamente
- Non può essere contraffatto, perché o è autentico o non è
E questa sera vogliamo parlare di un uomo che ha emanato questo profumo così intensamente che, a trentacinque anni dalla sua morte, ancora lo sentiamo. Ancora ci commuove. Ancora ci interpella. Ancora ci trasforma.
Parliamo del Beato Rosario Angelo Livatino, il “giudice ragazzino” che la mafia ha ucciso il 21 settembre 1990 su una strada di campagna vicino ad Agrigento, e che la Chiesa ha proclamato Beato il 9 maggio 2021, riconoscendo in lui un martire della giustizia e della fede.
I. IL PROFUMO NELLA SCRITTURA: QUANDO L’INVISIBILE DIVENTA SENSIBILE
Prima di parlare di Livatino, però, dobbiamo sostare sulla Scrittura. Perché la Bibbia è piena di profumi. E ogni profumo biblico ci dice qualcosa di essenziale sulla vita spirituale e non solo.
1. Il profumo del sacrificio: quando l’offerta sale a Dio
Nell’Antico Testamento, i sacrifici vengono descritti come “profumo gradito al Signore”. Dopo il diluvio, quando Noè offre un sacrificio, leggiamo:
“Il Signore ne odorò il profumo gradito” (Gen 8,21)
Dio non ha narici. Dio è spirito. Eppure la Scrittura usa questo linguaggio: Dio “odora” il profumo. Perché? Perché il profumo del sacrificio è l’invisibile che sale. È il visibile (l’animale, l’incenso, l’offerta) che si trasforma in invisibile (il fumo, il profumo) e sale verso il cielo.
Il profumo del sacrificio dice: “Io mi dono. Io salgo a Te. Io mi consumo per Te”.
E l’onestà è esattamente questo: un sacrificio. Perché vivere nell’onestà in un mondo disonesto è sacrificio quotidiano. È rinunciare a vantaggi immediati per la fedeltà a un valore superiore. È consumarsi per la giustizia invece che accumulare per l’interesse.
Livatino lo sapeva. Nel suo diario spirituale scrive:
“Il mio lavoro deve essere un’offerta. Ogni sentenza deve essere un atto d’amore. Non per gli uomini, ma per Dio. E se questo mi costerà la vita, sia fatta la Sua volontà”.
Il profumo del sacrificio.
2. Il profumo dell’amore: quando Maria unge i piedi di Gesù
Ma c’è un altro profumo decisivo nella Scrittura. È nel Vangelo di Giovanni, capitolo 12:
“Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e la casa si riempì dell’aroma di quel profumo” (Gv 12,3)
Tre elementi:
a) Il profumo è prezioso
“Trecento grammi di nardo purissimo” valevano un anno di salario. Maria dona il più prezioso che ha. Non il superfluo. Ciò che ha di più prezioso.
L’onestà costa. Costa opportunità perdute. Costa carriere mancate. Costa soldi non guadagnati. Costa amicizie rotte. L’onestà non è gratis. È costosa come il nardo purissimo.
b) Il profumo è sprecato
Giuda protesta: “Perché questo spreco? Si poteva vendere e dare ai poveri!”. Ma Gesù difende Maria: “Lasciala fare. I poveri li avrete sempre con voi, me non sempre”.
L’onestà sembra uno spreco. Gli uomini “pratici” dicono: “Ma perché essere così rigidi? Un piccolo compromesso non fa male a nessuno. Anzi, con i soldi guadagnati potresti fare del bene!”.
Ma Gesù dice: No. Ci sono momenti in cui bisogna “sprecare”. Bisogna dare tutto. Senza calcolo. Senza misura. Perché non tutto si riduce all’utile. C’è qualcosa che vale più dell’utile: la verità, l’onestà.
c) Il profumo riempie la casa
“La casa si riempì dell’aroma”. Non solo la stanza. La casa. Tutti sentirono. Tutti furono avvolti da quella fragranza.
L’onestà si diffonde. Non resta confinata alla persona onesta. Si espande. Raggiunge gli altri. Li tocca. Li trasforma. Anche chi non la pratica, la riconosce. La ammira. Ne è attratto. Ne è giudicato.
Quando Livatino entrava in tribunale, c’era un profumo. I colleghi lo sentivano. Gli avvocati lo sentivano. Perfino gli imputati lo sentivano. Era il profumo dell’onestà. E quel profumo metteva a disagio chi viveva nella disonestà, ma incoraggiava chi cercava la giustizia.
3. Il profumo di Cristo: quando i cristiani diventano “fragranza”
Ma il testo più straordinario è in San Paolo:
“Siano rese grazie a Dio, il quale sempre ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e per mezzo nostro diffonde ovunque il profumo della sua conoscenza! Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte, per gli altri odore di vita per la vita” (2Cor 2,14-16)
Testo sconvolgente. Paolo dice: noi cristiani siamo il profumo di Cristo, fragranza di Cristo. Non “portiamo” un profumo. Non “diffondiamo” un profumo. Siamo il profumo.
E questo profumo ha un effetto paradossale:
- Per chi si apre a Dio, è “profumo di vita per la vita”
- Per chi si chiude a Dio, è “profumo di morte per la morte”
Lo stesso profumo. Due reazioni opposte.
Perché? Perché il profumo dell’onestà giudica. Non a parole. Ma con la sua sola presenza. Quando in una stanza piena di corrotti entra un uomo onesto, non ha bisogno di parlare. La sua sola presenza è un giudizio. La sua sola vita è una denuncia.
Per questo i corrotti odiano gli onesti. Non perché gli onesti li accusano (magari non lo fanno nemmeno). Ma perché la loro sola esistenza è un rimprovero vivente.
Livatino non faceva proclami. Non scriveva articoli accusatori. Non andava in televisione. Semplicemente faceva il suo lavoro con onestà assoluta. Ma quella onestà era così luminosa che abbagliava. E chi vive nelle tenebre odia la luce.
Per i mafiosi, Livatino era “odore di morte”. La sua onestà li condannava. Non potevano comprarla. Non potevano piegarla. Non potevano corromperla. E allora dovevano eliminarla.
Ma per i giusti, per i giovani magistrati che lo guardavano, per i semplici cittadini che vedevano in lui un’altra possibilità di Sicilia, Livatino era “odore di vita”. La sua onestà diceva: “Un altro mondo è possibile. Si può vivere diversamente. Si può servire lo Stato senza servirsi dello Stato”.
II. L’ONESTÀ COME PROFUMO: FENOMENOLOGIA DI UNA VIRTÙ
Ma che cos’è esattamente l’onestà? Perché è così rara? E perché è così preziosa?
1. L’onestà è coerenza tra essere e apparire
La parola italiana “onestà” viene dal latino honestas, che deriva da honor (onore). Ma il greco usa una parola ancora più bella: aletheia, che significa verità. E verità (aletheia) etimologicamente significa “non-nascondimento” (a-lethes: non-nascosto).
L’onestà è non nascondere. È essere trasparenti. È che ciò che sono dentro coincide con ciò che mostro fuori. Non maschere. Non doppiezze. Non zone d’ombra.
Dante, nel Paradiso, descrive le anime beate come esseri così trasparenti che attraverso loro si vede la luce di Dio senza ostacoli. Scrive:
“Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille… tornan d’i nostri visi le postille” (Paradiso III, 10-12)
Le anime pure sono come vetri trasparenti. Cristalli. La luce le attraversa senza essere trattenuta. Questo è l’onestà: trasparenza.
Livatino era trasparente. Quello che pensava, lo diceva. Quello che diceva, lo faceva. Quello che faceva, lo era. Non c’era scarto. Non c’era finzione. Era uomo intero. E questa integrità è rarissima.
2. L’onestà è fedeltà a un ordine superiore
Ma l’onestà non è solo trasparenza psicologica. È anche fedeltà morale. È scegliere di obbedire a una legge superiore anche quando l’interesse personale suggerirebbe altro.
Kant lo ha espresso con chiarezza nel suo imperativo categorico:
“Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”.
Significa: comportati in modo tale che se tutti si comportassero come te, il mondo funzionerebbe. Non fare eccezioni per te stesso.
L’uomo disonesto dice: “Va bene che la regola vale per tutti. Ma io sono un caso speciale. Io ho bisogno. Io ho urgenze. Io ho diritto”. E così crea un’eccezione. E se tutti creano eccezioni, non c’è più legge.
L’uomo onesto dice: “La legge vale per tutti. Anche per me. Specialmente per me. Perché se io, che devo farla rispettare, la violo, come posso pretendere che gli altri la rispettino?”.
Livatino era magistrato. Esercitava un potere. Avrebbe potuto piegare le leggi. Poteva interpretarle creativamente. Poteva chiudere un occhio. Ma non lo faceva, non l’ha fatto. Perché sapeva che la giustizia inizia dall’autolimitazione del potere. Il giudice giusto è quello che sa che la legge ha un limite e obbedisce alla legge prima ancora di farla rispettare.
3. L’onestà è coraggio
Ma l’onestà non è solo questione intellettuale. Non basta conoscere la differenza tra bene e male. Bisogna avere il coraggio di scegliere il bene anche quando costa.
Aristotele lo sapeva. Nella Etica Nicomachea scrive: “La virtù morale comporta il piacere e il dolore. Per questo è difficile. Facile è fare ciò che piace. Difficile è fare ciò che costa”.
Ed è qui che la maggior parte degli uomini fallisce. Non perché non sanno cosa è giusto. Lo sanno benissimo. Ma non hanno il coraggio di farlo. Perché costa troppo.
Livatino lo scrive nel diario:
“Ho paura. Sarebbe assurdo negarlo. Ho paura di morire. Ma ho più paura di non fare il mio dovere che di morire. Perché se muoio facendo il mio dovere, muoio da uomo. Ma se vivo tradendo il mio dovere per paura, vivo da codardo”.
Ecco il coraggio. Non è assenza di paura. È fare ciò che è giusto nonostante la paura.
4. L’onestà è solitudine
E c’è un altro aspetto, drammatico: l’onestà è spesso solitudine.
Perché? Perché in un mondo disonesto, l’onesto è sempre minoranza. È sempre controcorrente. È sempre fuori posto.
I colleghi lo guardano con sospetto: “Perché lui sì e io no? Mi sta giudicando? Mi sta facendo la morale?”. Gli amici si allontanano: “È diventato rigido. Non è più dei nostri”. I potenti lo temono: “È pericoloso. Non possiamo controllarlo”.
E l’onesto si ritrova solo. Incompreso. Talvolta deriso. “Sei un ingenuo”, gli dicono. “Sei un idealista fuori dalla realtà”. “Ti fai del male da solo”.
Ma l’onesto sa che non è solo. Oltre alla serenità della coscienza c’è Qualcuno che vede. C’è Qualcuno che approva. C’è Qualcuno che, alla fine, giudicherà.
Livatino scriveva in testa ad ogni pratica: “S.T.D.” – Sub Tutela Dei (Sotto la protezione di Dio). Non era solo. Viveva alla presenza di Dio. E questo gli bastava.
5. Il nemico dell’onestà: il clientelismo
Ma se l’onestà è così preziosa, perché è così rara? Quali sono le forze che la ostacolano? Tra tutte, una emerge con chiarezza particolare nel contesto italiano: il **clientelismo**.
Il clientelismo è l’anticamera della corruzione. È più sottile, più pervasivo, più accettato socialmente della corruzione. Ma ne è il terreno fertile. Come disse Leonardo Sciascia: “Il clientelismo è l’anticamera della mafia”.
In Italia si parla spesso di corruzione, di mafia, di illegalità diffusa. Molto meno si parla di clientelismo, come se fosse un peccato veniale della nostra storia civile. Eppure è proprio il clientelismo — più della corruzione e insieme ad essa — a generare il clima di rassegnazione per cui “tutto cambia, ma nulla cambia”.
È un fenomeno antico come gli imperi, tenace come la gramigna, mimetico come quei serpenti di cui parla Plinio, che cambiano pelle ma restano serpenti. Si trasforma, muta linguaggi e volti, ma resta identico nella sostanza: la rinuncia al diritto in cambio di un favore.
La cultura lo ha capito prima della politica
La cultura italiana ha intuito ciò che spesso le istituzioni non hanno voluto vedere:
- Dante colloca nell’Inferno chi — per paura, convenienza o vigliaccheria — consegna la città ai potenti ingiusti: è la fotografia dell’Italia che si arrende.
- Manzoni mostra che don Rodrigo non è forte perché è “cattivo”, ma perché molti, attorno a lui, trovano comodo il suo potere.
- Verga racconta il fatalismo di un popolo che cerca protezione anziché diritti: è l’inizio di tutte le catene.
- Pirandello nota che in Italia non si chiede “che cosa è giusto”, ma “chi comanda”.
- Sciascia chiude il cerchio: “Il clientelismo è l’anticamera della mafia.”
La letteratura, insomma, non ci risparmia: ci mostra che il clientelismo non è un incidente, ma un’abitudine, una postura sociale.
Un sistema a tre voci
Il clientelismo non vive solo dove c’è un potente che dispone — vive dove c’è un cittadino che chiede e un mediatore che traffica. È un triangolo perfetto, come in una tragedia di Sofocle, dove ciascuno è indispensabile all’altro:
- Il potente governa e dispone
- Il mediatore lucra e traffica
- Il cittadino chiede e spera
E la città resta immobile. Il clientelismo è la negazione dell’onestà perché sostituisce il diritto con il favore, la legge con la relazione, il merito con l’appartenenza.
Perché il clientelismo è la negazione dell’onestà
Come si fa a parlare di onestà in un Paese dove il favore è più forte del diritto?
Si può parlare di onestà perché l’onestà è l’unico gesto che spezza la dipendenza. Hemingway diceva: “Il mondo spezza tutti, ma poi molti diventano più forti nei punti spezzati.” L’onestà è esattamente questo: forza nella fragilità.
E Dostoevskij ricordava che “la bellezza salverà il mondo”. La bellezza della trasparenza, della giustizia, della legge uguale per tutti: è questa la bellezza civile che può salvare il Paese.
Ma l’onestà personale, da sola, non ce la fa. Perché il clientelismo non è soltanto un comportamento: è un contesto che plasma i comportamenti.
Livatino lo sapeva. Operava in una Sicilia dove il clientelismo era radicato quanto la mafia. Dove per ottenere qualsiasi cosa — un posto di lavoro, una casa popolare, persino un semplice certificato — bisognava “conoscere qualcuno”. Dove il diritto era un’astrazione e il favore era la realtà.
E proprio per questo la sua onestà brillava così intensamente. Perché non si limitava a non essere corrotto: rifiutava l’intero sistema del favore. Non voleva intermediari. Non voleva raccomandazioni. Non voleva scorciatoie. Voleva solo la legge. E questa purezza lo rendeva invincibile e vulnerabile allo stesso tempo.
III. ROSARIO LIVATINO: ANATOMIA DI UN’ONESTÀ EROICA
E ora veniamo a lui. A questo giovane magistrato siciliano che ha incarnato l’onestà fino al martirio.
1. L’onestà nel quotidiano: il lavoro come preghiera
Prima di tutto: Livatino non era un eroe romantico. Era un uomo concreto, pratico, metodico. Studiava le carte fino a notte fonda. Preparava le sentenze con meticolosità assoluta (scriveva tutto a mano o con la macchina da scrivere, non c’erano i computer). Non lasciava nulla al caso.
I suoi colleghi ricordano: le sentenze di Livatino erano inattaccabili. Motivate in modo esemplare. Documentate con precisione assoluta. Giuridicamente perfette.
Perché questa cura? Perché per lui il lavoro era servizio. Non era solo un impiego. Era una vocazione. Era il modo in cui rispondeva alla chiamata di Dio.
Nel diario scrive:
“Il magistrato è un servitore. Serve lo Stato. Serve la giustizia. Serve Dio. E servire bene significa: preparare bene, studiare bene, decidere bene. Ogni sentenza è un atto d’amore”.
Ogni sentenza un atto d’amore! Che espressione stupenda! Significa: io giudico non per punire, non per vendicare, ma per ristabilire l’ordine del bene. E questo è amore. Perché l’amore vero vuole che ciascuno abbia ciò che gli spetta. Che il colpevole sia giudicato (per giustizia, ma anche per la sua redenzione). Che l’innocente sia liberato. Che la verità emerga.
In un contesto dominato dal clientelismo, dove le sentenze potevano essere “aggiustate”, dove le pressioni erano continue, dove il magistrato “amico” era più prezioso del magistrato giusto, Livatino restava incorruttibile. E questa sua fedeltà alla legge lo isolava sempre di più.
2. L’onestà nella prova: le minacce e la tentazione di fuggire
Ma l’onestà di Livatino non fu messa alla prova solo nelle carte. Fu messa alla prova nella carne. Nelle minacce. Nella paura.
Dal 1989 in poi, le minacce si fanno sempre più insistenti. Livatino sa di essere nel mirino. Gli viene offerta la scorta. Lui rifiuta. Perché? Non per eroismo incosciente. Ma perché non vuole vivere prigioniero. E perché, in fondo, sa che se devono ucciderlo, lo uccideranno comunque. Scorta o non scorta.
Nel diario scrive:
“Ho paura. Ma non posso lasciarmi paralizzare dalla paura. Se ogni magistrato che riceve minacce si ferma, allora la mafia ha già vinto. Devo continuare. Devo fare il mio dovere. E se questa è la volontà di Dio, sia fatta”.
Qui c’è l’onestà eroica. Non è solo non rubare. Non è solo non mentire. È non tradire anche quando tradire salverebbe la vita.
Perché Livatino avrebbe potuto salvarsi. Come? Mollando. Chiedendo il trasferimento. Chiudendo un occhio. Rallentando le indagini. Mille modi. Ma lui scelse di restare. Di continuare. Di non tradire. E questo lo portò alla morte.
3. L’onestà nell’ultimo istante: il perdono
E veniamo al 21 settembre 1990. La strada statale 640. L’auto che lo insegue. Gli spari. Livatino ferito che scende dall’auto e corre nei campi. I killer che lo inseguono. Altri spari. Livatino che cade, si rialza, corre ancora. Cade di nuovo. Si rialza. Corre. Cade.
Un testimone che vede la scena da lontano dirà: “Sembrava che stesse pregando mentre correva”.
Pregava. Mentre lo uccidevano. “Picciotti che male vi ho fatto?” E per chi pregava? Lo sappiamo dal diario, dove poco prima aveva scritto:
“Se mi uccideranno, voglio perdonare chi mi ucciderà. Voglio pregare per lui. Perché anche lui è figlio di Dio, anche se ha perso la testa e la strada”.
L’ultimo atto di onestà: il perdono. “Picciotti che male vi ho fatto?” Non odio. Non maledizione. Non vendetta. Ma perdono.
Perché l’onestà suprema è questa: riconoscere nell’altro, anche nel nemico, anche nell’assassino, un fratello. Riconoscere che anche il mafioso è creatura di Dio. Anche lui ha ricevuto una chiamata. Anche lui avrebbe potuto scegliere diversamente.
E pregare per lui. Perché si converta. Perché si salvi. Questo è il profumo di Cristo. Il profumo dell’amore che arriva fino al perdono dei nemici. Il profumo della croce.
IV. IL PROFUMO CHE RESTA: L’EREDITÀ DELL’ONESTÀ
E ora, trentacinque anni dopo, cosa resta? Resta il profumo.
1. Il profumo che giudica: la memoria come esame di coscienza
Quando ricordiamo Livatino, non facciamo solo un atto commemorativo. Facciamo un esame di coscienza. La sua memoria ci interroga:
- E io? Sono onesto?
- E io? Ho il coraggio di dire no quando dovrei?
- E io? Tradisco per convenienza?
- E io? Mi giustifico dicendo “tutti fanno così”?
- E io? Quando seguo il potente o prepotente di turno per il mio tornaconto?
Il profumo dell’onestà di Livatino giudica la nostra disonestà. Non a parole. Ma con la sua sola presenza. Come il profumo di Cristo che Paolo dice essere “odore di morte per chi si perde”.
Se davanti alla storia di Livatino restiamo indifferenti, se diciamo “era un altro tempo”, “era un caso speciale”, “io non posso fare così”, allora quel profumo ci giudica. Ci dice: tu stai scegliendo la mediocrità. Tu stai scegliendo il compromesso. Tu stai tradendo.
2. Il profumo che ispira: la testimonianza come chiamata
Ma quel profumo non solo giudica. Ispira. Chiama e richiama.
Quanti giovani magistrati, leggendo la storia di Livatino, hanno trovato il coraggio di non piegarsi? Quanti avvocati hanno scelto di non difendere la mafia? Quanti cittadini comuni hanno scelto di denunciare invece di tacere?
Il profumo dell’onestà è contagioso. Si diffonde. Raggiunge i cuori. Li tocca. Li trasforma.
È quello che Paolo chiama “profumo di vita per chi si salva”. Chi si apre a quel profumo, chi lo accoglie, chi dice “io voglio vivere così”, costui viene trasformato. Costui rinasce.
3. Il profumo che santifica: l’onestà come via di santità
Ma c’è un ultimo aspetto, il più importante: l’onestà è via di santità.
Per secoli abbiamo pensato che la santità fosse solo per i mistici, per gli eremiti, per chi si ritira dal mondo. E invece no. La santità è per tutti. Anche per il magistrato. Anche per l’operaio. Anche per la madre di famiglia.
E la santità si gioca nell’onestà quotidiana. Nel fare bene il proprio lavoro. Nel non tradire. Nel non mentire. Nel non rubare. Nel non corrompere. Nel non corrompersi.
Livatino è santo non perché ha avuto visioni. Non perché ha fatto miracoli. Ma perché ha fatto bene il suo lavoro. Ha servito lo Stato con onestà. Ha amministrato la giustizia con equità. Ha vissuto con coerenza. E quando è stato chiamato a dare la vita per non tradire, l’ha data.
Questo è santità. Santità laicale. Santità del quotidiano. Santità dell’onestà.
Papa Francesco, in occasione della beatificazione, ha detto:
“Rosario Livatino ci insegna che la santità è vivere il Vangelo nella concretezza della propria vita. È fare le proprie scelte alla luce della fede. È essere coerenti”.
V. CHIAMATA FINALE: “E TU?”
E ora, sorelle e fratelli, la domanda si rivolge a ciascuno di noi. E tu? Come vivi l’onestà?
Non parlo solo dei grandi gesti eroici. Parlo del quotidiano:
- Quando compili la dichiarazione dei redditi, sei onesto?
- Quando qualcuno ti dà il resto sbagliato a tuo favore, lo dici, lo restituisci?
- Quando potresti non pagare un biglietto perché nessuno controlla, paghi comunque?
- Quando sul lavoro nessuno ti vede, lavori lo stesso con impegno?
- Quando potresti dire una piccola bugia per evitare un fastidio, dici la verità?
L’onestà si gioca qui. Nel piccolo. Nel nascosto. Nel quotidiano.
L’onestà è liberazione
E c’è una verità che vorrei lasciarvi, una verità che Livatino ha vissuto e che la Scrittura proclama: L’onestà non è un peso. È una liberazione.
Sembra paradossale. Sembra che essere onesti sia faticoso, costoso, pesante. E in parte lo è. Ma c’è una libertà immensa che nasce dall’onestà:
- La libertà di guardare gli altri negli occhi senza vergogna
- La libertà di dormire la notte senza rimorsi
- La libertà di non aver paura che qualcuno scopra qualcosa
- La libertà di vivere con trasparenza
- La libertà di essere sé stessi
Il disonesto è sempre prigioniero. Prigioniero delle sue bugie. Prigioniero dei suoi segreti. Prigioniero della paura di essere scoperto. Deve ricordare cosa ha detto a chi. Deve stare attento a non contraddirsi. Deve gestire le apparenze. Deve fingere.
L’onesto è libero. Dice sempre la verità, quindi non deve ricordare nulla. È sempre sé stesso, quindi non deve fingere. Non ha segreti da nascondere, quindi non ha paura.
Gesù lo ha detto: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32).
L’onestà è libertà. E il profumo dell’onestà è il profumo della libertà.
Che cosa devono fare lo Stato e le Regioni
Ma l’onestà personale, per quanto necessaria, non basta. Perché il clientelismo non si abbatte con appelli morali, ma con strutture giuste. Ecco allora alcuni pilastri decisivi:
1. Rendere i diritti esigibili
Un diritto è tale solo se può essere esercitato senza intermediari. Casa, sanità, servizi sociali, trasporti, istruzione, sostegni alle famiglie, e soprattutto lavoro — che è la prima forma di dignità — devono essere accessibili a tutti, con procedure chiare e automatiche.
Un cittadino che non deve chiedere favori è un cittadino libero.
2. Trasparenza radicale
Ogni concorso, graduatoria, appalto deve essere pubblico e tracciato digitalmente. Il Sud avrebbe bisogno di un sistema informatico avanzato, semplice, obbligatorio: le ombre sono il nutrimento del favore.
La trasparenza è l’ossigeno dell’onestà e il veleno del clientelismo.
3. Merito e responsabilità
Finché le carriere si basano sulla fedeltà e non sulla competenza, il favore resterà la moneta più preziosa. Premiare il merito significa sottrarre terreno all’intermediazione opaca.
E chi sbaglia deve pagare. La responsabilità non può essere diluita nell’anonimato burocratico.
4. Tracciare ogni euro
Il denaro pubblico non può scomparire nei meandri della burocrazia. Ogni euro, dall’Europa al Comune più piccolo, deve essere monitorato.
La tecnologia oggi lo permette. Manca, forse, solo la volontà politica.
5. Presenza reale dello Stato nei quartieri fragili
Se la scelta è tra la burocrazia che non risponde e il “capo-quartiere” che risolve, vincerà sempre quest’ultimo. Servono educatori, servizi, centri giovanili, ascolto e dignità.
Uno Stato che non chiede fedeltà, ma garantisce equità, è uno Stato credibile.
L’onestà come rivoluzione silenziosa
Alla fine, l’onestà è possibile solo dove i diritti sono forti. Una società che non trova più conveniente il favore, ma normale la giustizia, è una società che cresce.
Il clientelismo non è un destino: è una rinuncia. E la rinuncia — come ci insegna la letteratura — è l’inizio della decadenza.
Al contrario, la normalità dell’onestà è la vera rivoluzione civile. Silenziosa, ma definitiva.
Livatino ce lo ha mostrato. Non con proclami, ma con la vita. Non con teoremi, ma con il martirio.
CONCLUSIONE: IL TESTAMENTO DI LIVATINO
Lasciatemi concludere con le parole di Livatino stesso che traggo dal suo diario. Poche settimane prima della morte, scrisse:
“Non so quanto tempo mi resta. Ma so questo: voglio viverlo nell’onestà. Nell’onestà verso Dio, verso lo Stato, verso me stesso. E se per questo dovrò morire, sia fatta la volontà di Dio. Ma non tradirò. Mai”.
Questo è il suo testamento. Non ha lasciato ricchezze. Non ha lasciato proprietà. Ha lasciato un profumo. Il profumo dell’onestà. Il profumo della coerenza. Il profumo della fedeltà. Il profumo della trasparenza. Il profumo del martirio.
E quel profumo ancora oggi riempie questa sala. Ancora oggi ci interroga. Ancora oggi ci chiama. Ancora oggi ci trasforma.
San Paolo diceva: “Noi siamo il profumo di Cristo” (2Cor 2,15).
Livatino lo è stato. E ci chiama a esserlo anche noi.
Sub Tutela Dei, amici. Sotto la protezione di Dio. Come lui. Per sempre.
PREGHIERA FINALE
Beato Rosario Angelo Livatino,
martire dell’onestà e della fede,
tu che hai scelto di morire piuttosto che tradire,
intercedi per noi presso Dio.
Donaci il coraggio dell’onestà.
Donaci la forza della coerenza.
Donaci la libertà della verità.
E fa’ che anche noi possiamo diffondere
il profumo di Cristo nel mondo,
il profumo dell’onestà,
il profumo della giustizia,
il profumo dell’amore.
Sub Tutela Dei.
Sotto la protezione di Dio,
noi viviamo.
Noi combattiamo.
Noi crediamo.
Noi speriamo.
Noi amiamo.
Amen.
Agrigento Fondazione Lucchesiana, 27 novembre 2025 ore 18
+ P.Vincenzo Bertolone
Arcivescovo emerito di Catanzaro-Squillace